Come agisce la memoria, da quali profondità arriva e perché ci ritorna facilmente? A volte basta un odore per suscitare il ricordo, un luogo, una sensazione. La madeleine di Proust. Altre volte siamo noi stessi ad attivare il ricordo volontariamente attraverso la ricerca di documenti del passato, scritti, fotografie, oggetti d’uso quotidiano ormai in disuso: materiali d’archivio a supporto della memoria. In greco il termine “memoria” ha la stessa radice di “smaniare”, desiderare, e al contempo di “martire”, colui che è testimone. Due aspetti che delineano insieme l’atto del ricordare. Teniamo traccia del passato perché non vogliamo lasciarlo andare, e d’altra parte non possiamo dimenticare perché l’esperienza vissuta ci ha segnato così profondamente da diventare un punto nodale della nostra esistenza.
La memoria interrogata da Giulio Malfer è una memoria duplice, tanto tenace quanto labile: rapace a un tempo e fragile e inerme nei confronti dell’oblio. É una memoria raccontata sulle lastre di pietra tombale, fotografie comuni consumate dal tempo, dove i lineamenti scompaiono per lasciare spazio a macchie incolori, slavate e corrose, che restituiscono l’immagine al bianco nulla in cui scompaiono i ricordi. La memoria ci abbandona se non è frequentata: “Polvere eri e polvere ritornerai”. Come si dimenticano le poesie imparate da bambini, dimentichiamo oggi la Storia, le guerre, la lotta, mentre muoiono con i Partigiani gli ultimi depositari della memoria storica della Guerra. Potremo in seguito ritrovarla nei libri, nelle carte e nei film d’epoca, ma non più negli occhi vispi che rivivono il ricordo, nel volto inciso dalle rughe profonde come cicatrici, nel fremito delle mani che hanno stretto il fucile. Per far affiorare i ricordi serve interrogarli, serve attenzione, dedizione, cura, quella che oggi solo i bambini e gli storici riescono ad avere, gli uni per amore del racconto, come ricorda Cristina Campo, gli altri per quell’attitudine da “straccivendolo” di cui parla Benjamin nei Passagenwerkche porta a ricercare ovunque le tracce, i frammenti su cui si basa la storia. Mattoni che ora, più che mai, vediamo tremare. Emblematico è il caso del cane Loukanikos con cui si apre la mostra, assunto a simbolo della rivolta durante le manifestazioni in Grecia dove si trovava sempre in prima linea contro la polizia. Dalla copertina del Time, la sua storia è finita oggi del tutto dimenticata.
La memoria chiede di essere “attivata” come una moderna installazione multimediale: si devono accendere i ricettori, sintonizzarsi sul suo canale, passarci accanto e fermarsi, dedicarle tempo. Riattiviamo e salviamo il ricordo quando stringiamo tra le mani il ritratto dei nostri cari (“Ad occhi chiusi”) tentando di salvarlo dall’incessante lavorio del tempo che ne rosicchia i lineamenti. Quando con assiduità li salutiamo ogni giorno sulla mensola su cui sono collocati come numi tutelari a protezione delle antiche case romane. Così si deve attivare la memoria del passato facendola riemergere dal buio dell’oblio, avvicinandola con la nostra attuale presenza, sfregandola come un cerino fino a che non nasce la scintilla. Serve tempo e fatica per attivare “Touch” di Giulio Malfer, fotografie stampate su carta termosensibile che, se riscaldate dal passaggio delle dita, fanno emergere i volti ormai scomparsi delle vittime della Shoa. Ci viene richiesto tempo e fatica per leggere i racconti scritti bianco su bianco delle loro storie, in un rilievo sottile che si intravede appena se visto in controluce. O i caratteri piccolissimi con cui Malfer scrive sul vetro la storia dei Partigiani, dimensioni che impongono un avvicinamento, una sospensione della visione a distanza tipica dello spettatore che fa superare le barriere ed entrare in quella sfera confidenziale che la prossemica definisce intima. Da questa distanza possiamo scorgere le mille e mille rughe nel palmo della mano di un vecchio reduce del fronte del Don, gli occhi che si accendono nella cavità oculare, che ci fanno immergere empaticamente nei ricordi come se fossero i nostri.
Se il compito del fotografo è documentare, Giulio Malfer ci aggiunge quello del filosofo perché interroga, scompagina certezze e non propone soluzioni. Tutta l’operazione di Malfer è un invito all’approfondimento e alla lentezza, direzioni contrarie al moto attuale che brucia e consuma le esperienze attribuendo loro le caratteristiche spettacolari e temporanee di un evento. Una denuncia sottile della società dell’immagine, della sua ingordigia nei confronti della realtà e della fagocitazione del racconto. Della sua supremazia sul concetto, sulla storia che sta dietro ogni volto, sul sentire. Le fotografie di Malfer sono un invito oggi a non dimenticare: un monito, un promemoria per i tempi futuri, “A futura memoria”._Erika Lacava