REPORTAGE
La montagna è ancora il mondo dei vinti?Il senso tragico del tramonto culturale che negli anni Settanta calava sulle Alpi riuscì a esprimerlo,
più di tutti, Nuto Revelli. Correva la fine di un’epoca, e l’infaticabile raccoglitore di biografie
nell’umanità marginale della montagna cuneese stava per concludere la sua opera.
Nel 1977, presso Einaudi, uscì Il mondo dei vinti, grande ritratto corale di un mondo sconfitto
dalla modernità. 85 storie unite nella disfatta, gli “ultimi” di quella società tradizionale che per secoli
aveva stretto un patto di equilibrio con la montagna.
I giovani valligiani abbandonavano la vita dei padri credendo alla promessa di un futuro migliore
in fabbrica.
Così, mentre nelle città i termitai di edilizia popolare andavano lievitando, nelle vallate si apriva
la grande ferita dello spopolamento. E fuori dalle poche isole dell’industria del turismo,
la natura non più amministrata assediava borghi abitati ormai solo da anziani.
Ma chi si accorse di quel tramonto?
Che traccia avrebbe lasciato nella coscienza di chi vive in città la fine di una cultura secolare?
Quale consapevolezza si sarebbe aperta in chi la montagna la frequenta durante i fine settimana,
per “staccare dall’alienazione della città”?
La montagna moriva in silenzio.
Eppure la patina delle riviste di turismo e dei depliant continuò ad alimentare lo stereotipo
del felice mondo alpestre, retaggio romantico che piegava la realtà, anche la più triste e faticosa,
in un eden idealizzato.
In primo piano l’ebbrezza dello sci, l’incanto dei ghiacciai, lo sforzo delle scalate, e sullo sfondo,
figure indistinguibili, gli ultimi montanari. Oggi le cose però stanno cambiando.
La spinta centrifuga dalle montagne s’è fermata e stiamo assistendo, qua e là, a un timido dietrofront.
A partire dal 1996, l’Istituto nazionale di sociologia rurale ha calcolato lo 0,2% in più
di popolazione residente in montagna.
Una nuova vita che insieme a chi ha resistito si prefigge di continuare, anche quando
il week-end è finito o l’alta stagione lascia posto al “periodo morto”.
Una vita senza stereotipi, concreta. Così come la si può leggere negli sguardi colti dal fotografo
Giulio Malfer.
A quasi quarant’anni dalle interviste registrate (e poi trascritte sulla pagina) da Nuto Revelli,
Malfer ritorna sugli stessi territori d’indagine etnografica usando la fedeltà, imparziale e icastica,
della macchina fotografica.
Viaggia in un arco di diversi anni nelle vallate meno toccate dal turismo realizzando una serie
di reportage foto-giornalistici. Nel difficile tentativo di ribaltare quello stereotipo che,
da una prospettiva urbana, ancora avvolge in gran parte il mondo alpino. _ Marco Albino Ferrari