REPORTAGE
Se si costruisce una casa di pietra o di mattone è perché essa possa ospitarvi la vita più a lungo
possibile immutata, stesso luogo stessa forma, dimensioni.
Il cataclisma naturale rimuove quest’intenzione e sposta i sopravvissuti al riparo.
La comunità intera fa la conta dei cittadini, distribuendoli temporaneamente in luoghi comuni
finché l’emergenza è in atto finché non si ristabilisce la capacità di tornare tutti alla propria vita,
fatta anche di cose e di case.
Non è casa ma modulo abitativo provvisorio il nome dato alle strutture dove oggi vive buona parte
della provincia de L’Aquila nell’attesa del cambiamento, miglioramento,
ritorno alla vita che si era cominciata.
In Abruzzo dopo 3 anni e più dalla tragedia, provvisorio sta diventando un aggettivo che identifica
più l’uomo che la sua sistemazione perché la costruzione o la sperata ricostruzione della città com’era,
tra stato, chiesa e imprenditori, pare non poter andar oltre quei moduli abitativi che il tempo passato
dice ormai se non definitivi quanto meno permanenti.
Ne parlano i dati di fatto tra cui anche le nuove cose che addobbano i moduli secondo la vita
che inevitabilmente vi si sedimenta. Perché se la televisione così come le pentole sono state predisposte
ad hoc per nutrire di illusione le giornate dei terremotati, in questi ambienti in cui i materiali
già sono in veloce decadenza, il bisogno di abitare la propria casa si legge nelle facciate di giardini
fioriti, panni stesi, tavoli e sedie o semplicemente niente, a suggerire ai burocrati che l’anima
non vuole solo ripararsi ma anche aprirsi annunciando
“io ci sono e quel che mi circonda e costruisco sono io, non solo il terremoto”._Claudia Avventi